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La bellezza delle strade (é)
Nella forma della Piazza Grande si
possono ancora leggere i segni del conflitto fra istanze civili e militari che, a partire
dal 1593 e nel corso del Seicento, hanno condizionato il progetto e la crescita di
Palmanova.
Ingegneri e soldati, suggerendo una piazza
a nove lati, pensavano a un'area di comando centrale collegata direttamente ai baluardi.
Per motivi difensivi, le tre porte lungo la cinta muraria avrebbero dovuto sorgere in
prossimità dei bastioni e le strade di accesso non dovevano comunicare direttamente con
la piazza. Marcantonio Barbaro, primo provveditore generale di Palma, pur accettando la
funzione militare della nuova piazzaforte, faceva improntare il disegno dell'impianto
stradale anche alle esigenze civili del luogo. Nella pianta, inoltrata al Senato veneziano
il 31 dicembre 1593, si erano già individuati i perni del definitivo assetto urbano
palmarino: ingressi posti al centro della cortina, impianto radiale e "piazza
grande". Superato uno dei tre ingressi, anziché imbattersi in continui ostacoli come
avrebbero richiesto le regole della progettazione militare, si prevedeva invece una
"maravigliosa vista". Le facciate degli edifici, allineate in un continuum
monumentale, dovevano incanalare l'occhio di chi entrava attraverso una prospettiva il cui
punto di vista cadeva sul bastione opposto rispetto al punto d'ingresso.
La città-fortezza di Palma veniva così
configurata come luogo di sintesi fra istanze civili e belliche. Il principio della robustezza
vitruviana era assicurato dalla solidità dei bastioni, ma l'impianto viario, più che
rispondere all'utilità militare, era ispirato a una comoda distribuzione mirante al
raggiungimento di una scenografica bellezza.
Il segretario Marin, di ritorno dal
cantiere nel febbraio 1594, a coloro che ancora sostenevano una posizione decentrata delle
porte, rispondeva che, in tale evenienza, "non vi saria nell'entrare la belezza della
drittura della strada, che risponde da ogni porta alla piaza grande, et anco sino da
l'altro capo della città, che farà maravigliosa vista a chi vi entrerà, et è conforme
anco al dissegno per inanti mandato da Sua Eccellenza (Marcantonio Barbaro) a Vostra
Serenità et laudato da tutto l'Eccellentissimo Senato".
La
forma esagonale e le dimensioni (é)
Assumendo il numero massimo di tre
porte e stabilito il criterio di un loro collegamento viario diretto con il bastione
opposto, al centro della città non potevano che confluire sei vie. Di qui la decisione di
una piazza esagonale, i cui lati, assimilabili a lunghi fondali teatrali, vengono
interrotti da assi stradali con funzione di cono ottico. La straordinaria ampiezza della
piazza - con un diametro di 100 passi, pari a 173 metri - non discende solamente dalla
presenza dell'enorme forte pentagonale in terra battuta - innalzato per difendere il
cantiere e già demolito nel 1600 -, ma anche dalla necessità di tenere gli edifici
circostanti a distanza di sicurezza dallo spazio centrale, adibito a campo di Marte. Tali
caratteristiche dimensionali, associate alle funzioni civili e militari definite nel corso
del Seicento, fanno della piazza di Palmanova un caso unico e non comparabile con nessuna
delle piazze di Terraferma erette dalla repubblica di Venezia durante il suo lungo
dominio. Le piazzeforti di Nicosia e Valona - entrambe situate nello Stato da Mar -
sono invece gli unici due esempi sui quali si potrebbe aprire un utile e fondato raffronto
con l'impianto palmarino.
Funzioni
e simboli (é)
La crescita della piazza e dei suoi
decori nel corso dei secoli, pur non avendo mai seguito un piano preordinato, è stata
sempre determinata da esigenze politiche il cui duplice scopo era quello di esaltare una
piazzaforte cruciale del sistema difensivo veneziano e di rafforzare i legami fra stato e
cittadinanza locale. La prima istanza che ha mosso i fondatori della città nel dar forma
alla piazza è stata tuttavia di carattere militare. Là, dove ora si apre un enorme
vuoto, unico sotto il profilo urbanistico, sorgeva un forte pentagonale in terra battuta,
eretto per difendere il cantiere da improvvise incursioni nemiche. La costruzione è stata
poi smantellata per far posto alla piazza ma, anziché restringere il perimetro lungo il
quale innalzare i nuovi edifici, si decideva di creare, nel cuore del nuovo avamposto
difensivo, una vasta area per le esercitazioni militari o Campo di Marte. Tutti gli
interventi successivi, realizzati per rendere più comoda la vita dei palmarini o per
esaltare i provveditori e il governo centrale, sono stati condizionati dal carattere
marziale del luogo. Il pozzo e il pennone, posti al centro, parlavano chiaramente:
lacqua, da intendere come allegoria della vita civile, veniva donata dalla
repubblica il cui vessillo, originariamente sormontato da una croce, sventolava per truppe
e cittadini. Il pozzo, in pietra d'Istria e con funzione di basamento del pennone, si
articola in tre eleganti aperture a nicchia, rivolte verso i borghi. L'ideatore, il
provveditore Giovanni Pasqualigo (1610-11), definendo l'opera di "grandissimo
ornamento", spiegava che lo "stendardo essendo (
) piantato nel centro
della piazza viene scoperto da un capo all'altro da tutte le strade della fortezza et
rende nobilissima prospettiva; onde è stimata da ognuno inventione et opera molto
degna". Nella singolare "macchina" si saldavano così l'utilità pubblica e
la centralità del governo veneziano, la cui presenza era attestata dal vessillo sul quale
campeggiava il leone marciano. Se nelle intenzioni di Marcantonio Barbaro, fondatore della
città, la piazza si dava come luogo di attraversamento scandito prospetticamente dai suoi
tre assi viari, con il Pasqualigo l'assetto della piazza tornava a rispecchiare l'impianto
centrale della città, il cui unico centro visivo - il pennone - coincideva con quello
geometrico.
Il tempio palmarino, il pennone e il
palazzo generalizio, ora sede del Municipio, sono stati localizzati lungo il principale
asse viario, dal quale entravano i nuovi provveditori. La porta di accesso, ora Aquileia,
era chiamata Marittima che significava Porta da Mar, vale a dire ingresso
per i veneziani e per tutti coloro che venivano dal mare. La "roia" o canaletta
dacqua, che un tempo correva attorno alla piazza, oltre a dotare la città di un
avanzato impianto tecnologico, separava larea di pertinenza degli edifici dal vero e
proprio Campo di Marte.
Nel duomo, stato e città si trovavano
inoltre uniti nella religione. Provenendo dalla porta Marittima, lo sguardo di chi
entrava nella piazza, dopo aver percepito la vastità del sito, trovava la sua meta
naturale nella facciata della chiesa, iniziata nel 1599. La repubblica, che in Palma
vedeva una nuova Aquileia - come attestano i carteggi di uno dei suoi ideatori, Giulio
Savorgnan - mostrava pubblicamente le valenze politiche e religiose della nuova fortezza
in chiave antiturca e antiasburgica. Le tre statue entro nicchia del duomo raffigurano
Cristo Redentore (1683) - protettore contro la peste e icona di una città cristianissima
-, san Marco (1693) - patrono della Repubblica - e santa Giustina (1693), nella cui
festività - 7 ottobre - ricorrevano la vittoria di Lepanto e la nascita di Palma. Le
statue sono sormontate da un leone marciano entro clipeo - copia ottocentesca di un
originale già attestato nel Settecento -, segno trionfale delle origini apostoliche di
Venezia.
Tangente all'asse viario della Marittima,
oltre al duomo veniva eretto anche il palazzo del provveditore generale, o palazzo
generalizio (1598), situato a sinistra di chi entra in piazza e ora sede del Comune.
L'opposizione fra i due principali edifici di Palma non è da sottovalutare: agli
ornamenti del luogo della fede rispondeva l'austera semplicità architettonica della sede
del buon governo. Un discorso programmatico enunciato, non a caso, lungo la direzione
d'ingresso di chi proveniva da Venezia.
I primi stravolgimenti dellantico
impianto generale della piazza iniziano con la caduta della repubblica. L'idea di una via
anulare sembra configurarsi durante la dominazione francese. In una pianta del 1843,
eseguita dal Genio militare austriaco, l'anello stradale è già affiancato da un'ampia
cordonatura o marciapiede, interrotto, su ogni lato e in prosecuzione delle sei strade
d'accesso, da un'apertura verso l'interno. Con il nuovo percorso ad anello, il traffico -
prima completamente libero - veniva incanalato in un tragitto a rondeau per
regolamentare e distribuire i flussi in entrata e uscita. Interrando la roggia, ancora
visibile in un disegno del 1882, si cancellava il segno di demarcazione fra area civile e
militare. Con il doppio filare di ligustri, forse introdotti durante la seconda metà
dell'Ottocento, si creava una passeggiata alberata parallela alla strada, ispirandosi ai boulevards
parigini, ma sopprimendo le aperture prospettiche ideate fin dal Cinquecento, attenuando
l'impatto con l'enorme vuoto esagonale, celando parzialmente tutte le quinte edilizie e,
in particolare, quelle del duomo e del palazzo generalizio. La crescita diseguale delle
chiome alberate ha inoltre introdotto un elemento di forte e non prevista irregolarità
volumetrica, soprattutto lungo il versante nord-orientale, dove le piante hanno avuto un
minore sviluppo. Infine, introducendo una serie di viali, affiancati da lampioni e
convergenti verso il pozzo centrale, si rimuoveva del tutto il ricordo
delloriginario Campo di Marte.
In pieno regime fascista, nonostante il
recupero dellarea di pertinenza militare, sono state compiute le modificazioni più
laceranti. Verso il 1934, lideologia del progresso faceva il suo ingresso trionfale
a Palmanova: per esaltare il flusso del traffico - simbolo della velocità e del moderno -
la nuova sede stradale veniva decorata, a modello dei fori imperiali romani, spostando e
ruotando le statue e le due colonne dalla loro sede originaria e sottraendole allo sguardo
ravvicinato e lento dei passanti che circolavano di fianco agli edifici della piazza.
Il forum di
Palma (é)
La Piazza Grande, la cui funzione
principale era quella di Campo di Marte, cominciò a popolarsi - come un pantheon
laico - con le figure dei suoi più virtuosi condottieri. Il modello proposto deriva
sicuramente dallarte classica e sembra ispirato alle descrizioni vitruviane del forum
romano. L'epigrafe latina incisa sul piedistallo della colonna che regge la statua
dell'arcangelo Michele sembra confermare tale ipotesi. Palmanova e la sua piazza vengono
infatti esaltate come Foro Julio. Non poche decorazioni, come festoni, trofei di guerra e
gli stessi elmi allantica dei provveditori, testimoniano a favore di una continuità
di fondo, civica e marziale, in figurazioni realizzate in periodi diversi. Tutti i
personaggi, rivolgendosi con sguardo assorto verso il centro della piazza, dove sorgeva il
simbolo dellalleanza fra città e governo, indicavano allosservatore
loggetto dei propri pensieri.
Si ritiene che le statue siano state
realizzate dalla comunità e dalle milizie palmarine come segno di riconoscenza a
particolari individui, distintisi per fermezza, generosità ed equità. Non è da
escludere tuttavia linteressamento diretto da parte dei singoli provveditori.
Luso dellarte come strumento di propaganda era così radicato nella nobiltà
veneziana che si stenta a credere a uniniziativa locale, libera dal controllo di
unautorità centrale. Altrettanto improbabile è il voler ritenere - anche se non si
ha alcuna notizia di un vero e proprio progetto - che statue, piedistalli e colonne siano
sorte casualmente, senza unidea dinsieme.
Le due colonne, situate di fianco al
palazzo generalizio, sono state collocate lungo il principale asse viario della città.
Evidentemente, fin dallinizio, lungo la strada Marittima si intendeva
realizzare lo stesso scenario della Piazzetta veneziana di San Marco, dominato dai
due noti monumenti dedicati ai patroni della Serenissima. L'evocazione del luogo marciano,
intrisa di palesi riferimenti politici, era stata già riproposta anche a Udine, sede
della Luogotenenza del Friuli. In una delle due colonne della piazza Contarena, realizzata
da Melchisedech Longhena nel 1612, si trova la statua della Giustizia, attribuita a
Girolamo Paleari, mentre nell'altra è situato il leone della repubblica, risalente al
1539. L'associazione di Venezia all'allegoria della Giustizia era un topos
dell'iconografia di stato tuttavia, a Palmanova, le statue poste sulle due colonne - i cui
originali sono ora conservati nel Civico Museo Storico - non possono ricondurre allo
stesso tema. Se in una di esse la figura cinquecentesca dell'arcangelo Michele può essere
assimilata all'idea della giustizia divina, nell'altra - di fattura seicentesca - sorgono
non pochi dubbi sulle identificazioni finora avanzate. Sia l'ipotesi di un arcangelo
Gabriele che quella di un genio della Giustizia sollevano perplessità rispetto agli
attributi della figura - mazza, spada con leone seduto nell'elsa e avvolta da un arbusto
con foglie lanceolate - e alle relazioni simboliche rispetto alla statua di Michele. La
diversa datazione dei due manufatti - desumibile per via stilistica - non semplifica di
certo l'interpretazione. Va inoltre ricordato che i due angeli erano un tempo rivolti
verso il centro della piazza e le rispettive colonne erano situate all'imbocco del Borgo
Marittimo.
Le datazioni poste nei piedistalli aiutano
invece a ricostruire la complessa vicenda delle statue dei provveditori. L'epigrafe della
colonna (A) con la statua del presunto Gabriele, nella quale si celebrano le virtù del
provveditore Giovanni Barbarigo, riporta la data del 1643 mentre l'altra iscrizione,
datata 19 novembre 1628 e incisa sul piedistallo con la statua di Michele (B), elogia il
provveditore Giulio Giustinian (1626-28) - definito "pio padre delle milizie" -
e giocando con le affinità fra i nomi Giulio, Foro Julio e Giulio Cesare, glorifica
Palmanova fra le maggiori città governate da Venezia, come Verona e Padova. Pur in
mancanza di prove documentarie, sembra ragionevole presumere che tale colonna fosse
collocata nella sua sede originaria poco prima di tale data e che pertanto, a partire da
quel periodo, i responsabili di Palmanova avessero stabilito di dare inizio a quei lavori
che, in un lungo arco di tempo, avrebbero conferito all'insieme della piazza il suo
necessario decoro vitruviano. Non si deve pensare a un piano prestabilito - le carte
d'archivio finora non hanno fatto trapelare neppure il minimo indizio in tal senso -
quanto ad un'idea ispiratrice, quella del decor classico, attorno alla quale sono
ruotate le iniziative di numerosi governanti. Prescindendo dagli edifici pubblici,
l'abbellimento della Piazza Grande è avvenuto in almeno quattro fasi: la costruzione del
pozzo e del pennone centrali (1611); l'erezione delle due colonne con gli arcangeli
(1628-43); la realizzazione dell'obelisco (1654), dei piedistalli e delle statue dei
provveditori (1628-86) e, infine, il completamento della facciata del duomo con le sue
statue (1683-93). Si ritiene che lobelisco - nella cui epigrafe si declama il
provveditore Alvise Priuli (1652-54) come uomo "nato alla porpora e al comando",
religioso, clemente, pietoso e giusto - fosse collocato di fronte al Duomo e rivestito in
foglia doro, ma questa presunta dislocazione era già mutata a metà Settecento,
come dimostra unincisione di Marco Sebastiano Giampiccoli (1706-1782), pubblicata
per iniziativa del provveditore Alvise Mocenigo (1735-43). Lunica prova di una sua
precedente localizzazione è data da una fotografia di inizio secolo che lo mostra di
fronte al Monumento ai Caduti. Poiché uno dei tre lati è privo di iscrizioni, si
può supporre che il monumento sia stato realizzato per essere collocato a ridosso di una
quinta architettonica e con gli altri due lati rivolti verso il passante.
Una conferma che le rappresentazioni
scultoree dei provveditori siano comparse non prima del 1628 è data dalla posizione della
prima statua (n. 1), dedicata al fondatore di Palmanova che, anziché comparire sulla via
principale di accesso alla fortezza, è stata collocata all'imbocco di un asse stradale
secondario. Considerando inoltre che le statue più antiche si trovano in prossimità di
quella del Barbaro (n. 1), si può presumere l'intenzione di una loro dislocazione in
senso orario. I primi due basamenti (nn. 1 e 2), architettonicamente identici, sembrano
inoltre suggerire una progressione per coppie. Infatti, anche se i restanti piedistalli
sono dissimili, ad unosservazione più attenta, ci si accorge che, salvo
uneccezione (n. 5), quelli che si affacciano sulla stessa via mantengono una
struttura architettonica analoga, sia pure dissimulata da decorazioni difformi.
La stessa mappa delineata nel 1677 da
Filippo Verneda - documento grafico di capitale importanza per la storia di Palmanova -
non fornisce alcun ausilio per ricostruire le vicende inerenti le statue. Infatti, i segni
grafici che sembrerebbero alludere ai piedistalli, ad un attento esame ravvicinato
sull'originale, vanno interpretati come siti - la cui natura non è ancora chiara -
connessi alla presenza della roggia o canale d'acqua che costeggiava il perimetro della
piazza.
Le statue
dei provveditori (é)
Istituita fin dalla fondazione di
Palmanova, la carica di provveditore generale era considerata fra le più
prestigiose della repubblica veneziana. I patrizi che riuscivano ad accedervi potevano
aspirare, se già non lo possedevano, al titolo di procuratore di San Marco e, di
conseguenza, a quello eventuale di doge. Il passaggio di alcuni di loro è ricordato in
numerose iscrizioni disseminate nella città, ma solo a pochi venne riservato il
privilegio di una raffigurazione artistica. Quasi a voler distinguere coloro che si erano
prodigati maggiormente nella sfera religiosa da quelli più attivi in quella militare e
civile, si trovano due serie di ritratti: una, accessibile a pochi e composta da dipinti,
nella sacrestia del Duomo e, laltra, sotto forma di undici sculture, nella pubblica
piazza. La notizia dellesistenza di una dodicesima statua, collocata nel Palazzo
generalizio fino alla metà dellOttocento e raffigurante Girolamo Gradenigo, è
accolta solamente da Damiani (1961).
Ancora più intricata e incerta risulta
lidentificazione dei personaggi raffigurati. In seguito a una decisione del Senato
veneziano, presa il 15 dicembre 1691 per impedire il culto della personalità di singoli
funzionari della repubblica, le iscrizioni e gli stemmi scolpiti sui piedistalli vennero
cancellati. Il provveditore Domenico Bragadin, in data 12 marzo 1692, nel comunicare
l'avvenuta cancellazione, precisava che piedistalli e statue non erano stati rimossi per
mancanza di fondi nelle casse palmarine. L'unica epigrafe di cui si conosce il testo,
riprodotto in un manoscritto di famiglia, è quella dedicata al provveditore Giovanni
Sagredo, in data 1660.
Il primo studioso che affrontò
l'identificazione delle statue fu Lucio Rosenfeld (1888) che tuttavia non documentò le
sue supposizioni. Dopo di lui, altri storici locali si sono cimentati con il problema,
formulando ipotesi dissimili e spesso prive di qualsiasi prova. I nomi avanzati dal
Rosenfeld sono stati parzialmente rettificati da Piero Damiani (1961, 1965, 1969). Le sue
identificazioni non sempre coincidono con i nomi riportati sulle targhe fatte applicare
dal Comune sui piedistalli allinizio degli anni Settanta. Alceste Ferrante (1976,
vol. 24, pp. 1-7) ha invece riproposto la vecchia elencazione del Rosenfeld, mentre
Francesco Garbari (1993) ha giustamente messo in dubbio gran parte delle identificazioni
e, avanzando preziose rettifiche, si è cimentato con il difficile problema delle
datazioni e delle attribuzioni. Le vecchie targhe, rimosse con gli interventi di restauro
del 1999, non erano sempre attendibili. Attualmente si può dare per certa
lidentità di quattro statue mentre, di un quinto provveditore, si conosce il nome
ma non l'effigie. Partendo da tali certezze e grazie a un gioco di incastri e deduzioni,
tutte le statue possono essere datate con maggiore attendibilità.
La prima statua (n. 1), raffigurante
Marcantonio Barbaro - in carica dal 1593 al 1594 - è stata realizzata fra il 1628, data
dell'epigrafe posta nel piedistallo della colonna con la statua dell'arcangelo Michele (B)
e il 1648-51, anno in cui venne realizzata la statua del provveditore Girolamo Dolfin (n.
4). Il Barbaro (1518-95), noto per la sua villa di Maser, presso Treviso, nella quale
lavorarono Palladio e Veronese, fu bailo (ambasciatore) a Costantinopoli durante la crisi
di Cipro e Lepanto. Nel 1574 ottenne la carica di procuratore di San Marco e di
commissario ai confini del Friuli. Nel 1593 fu il primo provveditore generale di
Palmanova, nonché suo fondatore. La sua armatura si avvicina a quella del "soldato
armato" raffigurato nel 1598 da Cesare Vecellio con gli schinieri o gambali, dotati
di ginocchiello e stincaletto e adoperati per proteggersi dai tiri da lontano degli
archibugieri. Unico personaggio in barba e baffi, secondo la moda del Cinquecento.
Ogni elemento angolare del piedistallo sul
quale è posata la statua è composto da una grande voluta ionica sormontata da una punta
a diamante e da unampia gola rovescia, troncata nella parte superiore.
Lelemento, per forme e linguaggio, rammenta le sperimentazioni strutturali o
decorative attuate dal Longhena a Venezia nella cupola della Basilica della Salute (1631)
e, in particolare, nel Monumento funebre a Bartolomeo Orsino, in Santo Stefano
(1629-33). Non è da escludere - e ciò comporterebbe una restrizione dell'arco temporale
entro il quale situare la realizzazione della statua - che i due piedistalli siano stati
realizzati su disegno dello stesso architetto, presente a Palmanova nel gennaio del 1634,
per un sopralluogo al Duomo.
La seconda identificazione certa è quella
del provveditore Girolamo Dolfin (1648-51), riconoscibile dai tre delfini che ne ornano il
piedistallo e allusivi all'arma di famiglia (n. 4). Lo stemma della casata veneziana
appare anche in un rilievo dell'antico Monte di Pietà, al civico n. 25. L'identità del
Dolfin è confermata anche da un suo ritratto in rilievo, sinora mai notato e rinvenibile
in una lapide attualmente conservata nell'edificio della Loggia, in Piazza. Egli fece
costruire il nuovo organo e il palco della cantoria del duomo. Il personaggio indossa un
vistoso "bavaro"- presente nelle statue n. 5, 9 e 11 - diffuso anche tra la
nobiltà friulana, come attestano la Sacra Famiglia di Antonio Carneo (1667),
conservata nel Museo Civico di Udine, e alcuni ritratti di gentiluomini conservati nella
villa di Ottellio di Butrio - dello stesso artista - e presso la collezione Morelli de
Rossi, a Udine, di Benedetto Mangilli (1665). Il piedistallo che sorregge la statua del
Dolfin, lunico a base triangolare, presenta un doppio dado, in conformità a quello
precedente. Nel dado inferiore emergono pseudo-cariatidi sotto le spoglie di sirene o
tritonesse con lovvio intento di conferire al monumento un aspetto marinaresco, in
omaggio a Venezia e al casato del provveditore.
Il terzo personaggio certo è Leonardo
Donà (1682-84), identificabile per le tre rosette (n. 10), delle quali due situate al
centro di piccoli scudi e segno inequivocabile dellarma dei Donà dalle Rose. Il
provveditore, ricordato in unepigrafe situata sulla facciata del Duomo e datata
1683, è ritratto, come il n. 7, in ungherina, un capo di vestiario già presente nella
moda di metà secolo. Nel piedistallo si ripropongono gli scalini quadrangolari. La
tipologia del dado è analoga a quella del n. 7, ma le volute sono più eleganti. Le
decorazioni poste sullo specchio anteriore, in bassorilievo, raffigurano una panoplia con
due bracciali dotati di cubitiera, secondo luso antico. Sulle pseudo-lesene laterali
si trovano altre panoplie raffiguranti una corazza leggera - il saione degli
antichi greci - e spade incrociate dalla lama ricurva, probabile allusione a trofei
"turcheschi".
La quarta identificazione riguarda Girolamo
Renier (1684-86), spesso scambiato per Vincenzo Da Mula (n. 11). Dettagli fisionomici come
sopracciglia e mento, i baffi appena accennati, la vistosa parrucca - detta en
crinière o in folio - e il rabat o "bavaro" con merletti
rimandano al ritratto dello stesso personaggio, conservato nella sacrestia del Duomo di
Palmanova. Egli indossa delle anacronistiche braghe strette, dette allitaliana, di
moda fino a metà Seicento. Nella relazione, letta in Senato nel 1686, il Renier riferiva
di aver ripristinato il tasso del 5% nel locale Monte di Pietà, di aver migliorato
lamministrazione delle confraternite e di aver restaurato le opere difensive e
lacquedotto della città.
Come già accennato, una testimonianza
manoscritta consente di individuare un quinto provveditore, Giovanni Sagredo, in carica
dal 1659 al 1660. L'identificazione della sua statua, che in questa sede si avanza con
riserva, è possibile ragionando per via deduttiva e avvalendosi di alcuni documenti
d'archivio. In un disegno su pergamena inserito fra due registri della Fraglia degli Osti,
conservato presso lArchivio di Stato di Udine (Congregazioni religiose soppresse,
B. 311; Garbari, p. 81), davanti al duomo si distinguono le statue di due provveditori. Il
disegno è incluso fra due registri. Il primo, è un libro di cassa con annotazioni dal
1672 al 1732 e il secondo raccoglie le deliberazioni della corporazione dal 1671 al 1762.
Poiché la Fraglia degli Osti è stata ufficialmente riconosciuta il 12 aprile 1672, è
probabile che il disegno sia stato realizzato fra il 1671 e il 1672. In tal caso, si
potrebbe dimostrare che le due statue fossero già in situ nel 1672. Ma va comunque
ricordato che gli apparati decorativi delle mariegole non sono sempre coevi alla
fondazione delle scuole di devozione o di mestiere e che lo schizzo in questione, alquanto
sommario, raffigura la facciata del duomo priva degli ingressi laterali e sormontata da un
attico anziché da un timpano. Il disegno dellArchivio di Stato di Udine, nel quale
non figura l'altra statua situata nell'altro lato di Contrada Donato (n. 7), è comunque
databile fra il 1671 e il 1686, anno di fine mandato di Girolamo Renier (n. 11). Oltre a
questo disegno, ne esiste un altro, meno interessante ma pur sempre prezioso ai fini della
documentazione, che rappresenta la piazza in un'ampia panoramica verso il duomo che
compare con il suo grande timpano. Lo schizzo, segnalato presso l'Archivio di Stato di
Venezia, è stato pubblicato dal Damiani e datato verso la fine del Seicento. Purtroppo,
mancando la sua segnatura, non è stato possibile un esame diretto.
Dalle osservazioni fin qui avanzate, si
può dedurre che una delle due statue poste dinanzi al duomo sia da identificare con
Giovanni Sagredo, la cui epigrafe laudatoria porta la data del 1660. La fattura delle due
statue, come pure quella dei piedistalli, alquanto dimessa e arcaica, potrebbe discendere
dal desiderio di conformarsi allo stile severo della facciata, le cui parti principali
erano già terminate nel 1616. Il piedistallo a destra, per chi guarda la chiesa (n. 6),
presenta decorazioni con festoni e foglia di acanto che rinviano a significati allegorici
di tipo religioso, mentre l'altro basamento appare privo di ornamenti. Il personaggio
raffigurato - con pizzo, mustacchi e braghe strette, dette allitaliana, di moda fino
a metà Seicento - è il primo, in ordine temporale, ritratto con la testa girata di lato,
ad esprimere attenzione verso il luogo e i suoi abitanti. L'epigrafe del 1660 ricorda il
patrizio veneziano per numerose virtù come "eloquenza, sapienza, saggezza nel
governare il Friuli (
) religione, equità, prudenza, carità". Non è da
escludere - ma è solo un'ipotesi - che sia proprio questa la sua statua (n. 6), sia per
le allegorie religiose poste sul piedistallo, sia per il movimento della testa che
potrebbe alludere a un gesto di benevolenza o magnanimità.
La datazione delle rimanenti sei statue non
può che discendere da quella delle altre cinque. Il tentativo di datare queste sculture
esaminandone acconciature, armature e vestiario, senzaltro utile per studiare la
moda del tempo, può condurre tuttavia a valutazioni errate e fuorvianti. Le consuetudini
veneziane insegnano che, almeno in laguna, lo sviluppo della moda non era così lineare
come quello verificatosi nella ristretta e esclusiva corte francese. Se poi, avvalendosi
della ritrattistica ufficiale, si esaminano i ritratti di personaggi che hanno ricoperto
alte cariche si possono riscontrare palesi anacronismi. Il doge Francesco Morosini
(1688-94), in un ritratto conservato presso il Museo Correr e attribuito a Bartolomeo
Nazzari, è raffigurato con unarmatura dotata di lunghi e arcaici ginocchiali a
crosta di gambero. Il governante o il condottiero potevano vestire alla moderna per
dichiarare il proprio spirito innovatore, ma il diffuso sentimento conservatore del
patriziato veneziano induceva a mostrarsi spesso con costumi allantica, non tanto in
riferimento ai romani, ma agli avi o ai predecessori più vicini.
La divisa delle statue dei provveditori è
quella delle circostanze ufficiali: il mantello scarlatto e il bastone del comando
dichiarano lautorità politica e militare degli ufficiali veneziani. Lelmetto
da corazza, simbolo delle virtù degli antichi più che reale vestimento, sostituisce il
cappello a larga tesa per ricordare, essendo adagiato a terra, le intenzioni pacifiche del
guerriero. Lallusione al buon governo e alla pax civile e militare sembra confermata
dalla posizione della spada, quasi del tutto nascosta dal mantello. Tutti i provveditori
indossano corsaletti da corazza, riconoscibili dai ginocchiali a lame o a crosta di
gambero e tipici della cavalleria "grave", dotata di spada e pistola. Questo
tipo di corsaletto si attesta attorno al 1615 e, nelle statue palmarine, si distingue per
i ginocchiali o scarselloni, accorciati fino a metà coscia. Le armature dei provveditori
sono semplici, analoghe a quelle indossate da dogi e condottieri del Seicento, assai
simili a quelle lisce o brunite e prodotte a Brescia per i corpi speciali. Le armature
prive di scarselle, ispirate ai criteri di alleggerimento avviati con la guerra dei
Trentanni, sono solamente due (nn. 7, 10). La fascia diagonale, detta banda o
sciarpa, che serviva come segno di riconoscimento in battaglia, si fonde con il cinturino
porta spada. Le braghe strette, dette allitaliana e di moda fino alla metà del
Seicento, sono presenti in statue realizzate in un ampio arco cronologico (nn. 1, 5, 6, 8,
11), esteso dallinizio alla fine del secolo. Altrettanto si può dire delle braghe
leggermente allargate, accompagnate dalla calza a maglia o a guggia (nn. 2, 9). Al
contrario, sia per i provveditori con braghe gonfie (nn. 3, 4), già diffuse a metà
secolo e da non confondere con la rhingrave, una sorta di gonnellino che veniva
indossato sopra le braghe e diffusosi in Francia verso il 1656, sia per i provveditori che
indossano una sorta di gonnellino o coietto (nn. 7, 10), già presente a metà Seicento e
corrispondente alla parte finale dellungherina o ropiglia lunga, si potrebbe pensare
a una relativa vicinanza temporale nellesecuzione.
Fra le statue di Palmanova, la figura di
Marcantonio Barbaro (n. 1), fondatore e primo provveditore della città, si distingue
dalle restanti per la diversità degli abiti cinquecenteschi. La fisionomia del suo volto,
assai più giovane di un uomo di 77 anni quale era all'epoca del suo incarico, rivela i
tratti di una rappresentazione idealizzata e postuma. Labbigliamento della scultura
identificata con Giovanni Mocenigo (n. 2) invece non corrisponde alla moda dellepoca
durante la quale il patrizio veneziano esercitò lalta carica palmarina (1594-96).
Lo stivale di cuoio, che sostituisce lo schiniere dellarmatura, richiama
consuetudini affermatesi agli inizi del Seicento. Le braghe leggermente allargate,
accompagnate dalla calza a maglia o a guggia, rinviano ad un periodo di poco posteriore.
Il mento rasato conferma le precedenti osservazioni. La figura richiama un personaggio del
Seicento e ciò avvalora ulteriormente la datazione delle sculture, realizzate non prima
del 1628. I fatti potrebbero essersi svolti nel modo seguente: attorno al 1628, si decide
di commissionare la prima statua di un provveditore in procinto di terminare il proprio
mandato con lintento di realizzarne altre nel corso del tempo. Poiché la serie non
poteva aprirsi senza un omaggio al Barbaro, si predispone la prima coppia di piedistalli,
aventi la stessa forma (nn. 1 e 2). Le rispettive sculture potrebbero essere state
commissionate e forse realizzate nello stesso periodo.
La presunta statua di Girolamo Cappello (n.
3; 1628-48) si distingue per i lunghi capelli arricciati e rigonfi ai lati. La
capigliatura apparteneva al soggetto che, probabilmente, voleva ispirarsi alla moda
francese. Leventualità di una parrucca, in voga in Francia fin dal 1626, va qui
esclusa poiché il suo uso, a Venezia, venne introdotto per la prima volta nel 1665, per
iniziativa di Scipione Vinciguerra di Collalto, tornato da unambasciata presso la
corte di Francia. Il piedistallo, che si distingue per la pesantezza delle basi e delle
cornici e per la ricerca di un aspetto architettonico asciutto e grave, è lunico
che presenta un sedile per lato, quasi a voler sottolineare lo spirito di accoglienza e di
generosità del provveditore nei confronti dei palmarini.
Dopo la presunta statua di Giovanni
Pasqualigo (n. 5), che segue quella di Girolamo Dolfin (1648-51) e precede quella del
presunto Benedetto Tagliapietra (1651-72; ipotesi: Giovanni Sagredo, 1660), segue quella
associata arbitrariamente a Giovanni Sagredo I (n. 7; 1672-82). La statua non compare nel
disegno racchiuso fra i registri della Fraglia degli Osti, databile al 1672. Il
personaggio indossa un busto da cavallarmato e un gonnellino o coietto, foderato con
pelliccia, corrispondente alla parte finale dellungherina o ropiglia lunga,
considerata non elegante, ma comoda per viaggiare a cavallo e già presente nella moda di
metà secolo. La vistosa parrucca, detta en crinière o in folio e comparsa
verso il 1670, conferma la datazione della statua poiché lornamento venne
introdotto a Venezia a partire dal 1665. Il personaggio indossa il corsaletto ma è privo,
come nella statua n. 10, dei ginocchiali a crosta di gambero. Il piedistallo, la cui
struttura presenta analogie con quello posto sull'altro lato della strada (n. 6), si
differenzia da questo per numerosi particolari, fra i quali le due pseudo-lesene
trasformate in volute semplificate e sopra le quali sono scolpiti un elmo e uno scudo
antichi e, sul laltro lato, un tamburo e due trombe, allegorie della fama e della
gloria militari.
Segue il presunto Antonio Grimani (n. 8;
1672-82). Il personaggio indossa le braghe strette, dette allitaliana, di moda fino
a metà Seicento. Sul suo elmo è scolpito un mascherone, in riferimento allarte
militare antica. Ricompaiono gli scalini a pianta ottagonale, già presenti nei primi due
piedistalli e si opta, ma non alla lettera, per una pulizia formale analoga a quella di
uno dei due piedistalli (n. 5) situati di fronte al Duomo.
Il supposto Francesco Grimani (n. 9;
1672-82) indossa delle braghe anacronistiche, leggermente allargate e accompagnate dalla
calza a maglia o a guggia. Il personaggio guarda di lato, come la statua n. 6. Il
piedistallo è lunico con scalini e dado a pianta esagonale. La figura geometrica,
replicata con insistenza anche nelle basi di raccordo con la statua, ripropone la forma
della Piazza Grande, forse nellintento di dichiarare unideale coincidenza
vitruviana fra macro e microcosmo, fra forum - quale immagine di uno stato ordinato
- e provveditore, rappresentante della repubblica veneziana.
Allo stato attuale delle nostre conoscenze,
l'esame stilistico delle statue fornisce persino minori certezze e, in mancanza di nuovi
documenti d'archivio e di uno studio sistematico e esauriente sulla scultura veneziana e
friulana del Seicento, consente di formulare solamente delle modeste ipotesi di carattere
attribuzionistico.
Le statue di Marcantonio Barbaro e del
supposto Giovanni Mocenigo (nn. 1 e 2), le prime in ordine di tempo secondo l'ipotesi più
sopra avanzata (1628-48), sembrano eseguite dalla stessa mano che, nel panneggio dei
mantelli, ripropone un modellato semplice, a tratti risolto in modo compendiario e
caratterizzato da linee direttrici convergenti sul petto del personaggio. Grazie alla
miglior lettura consentita dalla recente pulitura, nei tratti del volto del Barbaro, non
privi di schematismi costruttivi, si ravvisano non poche analogie con quello di Daniele
Antonini, il cui busto è stato realizzato dal friulano di origine lombarda Girolamo
Paleari o Paleario e conservato nei Musei Civici di Udine (1618). Va altresì rilevato
come la tipologia della capigliatura presente nella figura del Mocenigo richiami quella di
Bernardo Zaccaria, il cui busto, scolpito a Marano Lagunare da uno scultore anonimo verso
il 1673, costituisce una prova ulteriore degli anacronismi della moda in ambiente veneto.
Anche se non è possibile assegnare con sicurezza la paternità delle prime due statue dei
provveditori palmarini, si può sostenere che la loro esecuzione sia da ricercare in
ambito locale. Se nel corso del Seicento l'influenza degli scultori veneziani si fece
sentire in tutto il Friuli, non va dimenticato che, agli inizi del secolo, si annoverava
una schiera numerosa di intagliatori e doratori locali.
Le due statue successive (nn. 3 e 4), sia
pure di autori diversi, si presentano invece più fluide sia nel modellato che nella
postura, si evidenziano per il maggior naturalismo e per una evidente ricerca
contrappuntistica nelle pose e nel gioco fra concavo e convesso delle pieghe. I vestimenti
delle due figure ritornano con forti analogie in una statua più tarda, raffigurante
Almerigo d'Este (1666) e conservata nella chiesa veneziana dei Frari.
Le statue che fiancheggiano la facciata del
duomo (nn. 5 e 6), realizzate entrambe da uno stesso artista locale (1651-72), presentano
forti analogie sia nei dettagli decorativi delle armature e degli elmi sia nel modo di
risolvere le increspature del panneggio e il punto di incontro, stretto e arrotondato, di
alcune pieghe. Per le medesime ragioni, la statua n. 8 va ricondotta nello stesso ambito
artistico, sia pure con una datazione di poco posteriore (1682-84).
La statua n. 7 (1672-82) introduce a
Palmanova la retorica e la spettacolarità barocche, sicuramente mediate da modelli usciti
dalla bottega del Le Court, presente a Venezia a partire dal 1663 e scomparso verso il
1680.
La figura del presunto Francesco Grimani
(n. 9; 1672-82) si ispira, per pose e modi di vestire, alle statue n. 3 e 4, pur
presentando una maggiore accentuazione nel movimento rotatorio della testa. Il desiderio
del committente di rifarsi a modelli precedenti è confermato - al contrario della statua
n. 7 - anche dal rigoroso rispetto del divieto governativo di indossare la parrucca. Lo
stesso modo di vestire si riscontra nella statua funebre di Caterino Cornaro (1674),
attribuita al Le Court e conservata nella basilica del Santo, a Padova.
La figura di Leonardo Donà (n. 10;
1682-84) riporta di nuovo alla ribalta il gusto barocco rivelando una conoscenza, sia pure
indiretta, dei modi berniniani e, in particolare, nella resa dei panneggi, animati da una
forte brezza. L'anatomia delle mani, come pure i tessuti fluenti e ariosi, a tratti
rovesciati su se stessi, richiamano la maniera di Tommaso Ruer - attivo fra il 1670 e il
1696 - e di Francesco Ongaro (1644 circa - 1684) rinvenibile nelle due statue di angeli,
provenienti dalla chiesa di San Giacomo, alla Giudecca, e ora nella parrocchiale di Murlis
di Loppola.
La statua di Girolamo Renier (n. 11;
1684-86), ben risolta nei dettagli decorativi e caratterizzata da una vistosa parrucca,
lascia di nuovo trapelare una mano locale, ammaestrata dai modelli precedenti di
ispirazione veneziana, ma di nuovo irrigidita nell'anatomia e nella resa dei panneggi.
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RINGRAZIAMENTI
RINGRAZIAMENTI
(é)
Si ringraziano, per il continuo
incoraggiamento, Fernando Venturini e, per il prezioso aiuto, le dottoresse Gabriella Del
Frate, del Comune di Palmanova, e Roberta Corbellini, dell'Archivio di Stato di Udine.
PIAZZA
GRANDE (é)
Numerazione delle statue
A : Colonna dellarcangelo Gabriele
(?) (Epigrafe: 1643)
B : Colonna dellarcangelo Michele (Epigrafe: 1628)
C : Obelisco Alvise Priuli (1654)
1 : Marcantonio BARBARO (1628-48; ipotesi: 1634)
2 : Giovanni MOCENIGO (?) (1628-48)
3 : Girolamo CAPPELLO (?) (1628-48)
4 : Girolamo DOLFIN (1648-51)
5 : Giovanni PASQUALIGO (?) (1651-72)
6 : Benedetto TAGLIAPIETRA (?) (1651-72) (ipotesi: Giovanni
Sagredo, 1660)
7 : Giovanni Sagredo I (?) (1672-82 )
8 : Antonio GRIMANI (?) (1672-82 )
9 : Francesco GRIMANI (?) (1672-82)
10: Leonardo DONÀ (1682-84)
11: Girolamo RENIER (1684-86)
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