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Nell'antichità, il symbolon era un segno di riconoscimento
che, una volta accostato alla sua metà, consentiva a due persone di provare, mediante la
ri-costruzione di un oggetto o di una immagine, un mutuo legame di appartenenza. Il verbo syn-ballein,
significa mettere insieme e anche paragonare. Ri-unire elementi precedentemente separati,
è un atto che si contrappone all'azione diabolica il cui fine, secondo la sua
etimologia greca, è quello di separare o dis-unire. Proprietà del symbolon
è dunque il darsi sia come parte che come segno evocatore di un'originaria unità. Ma
esiste anche un'altra accezione del termine, non meno preziosa. Presso la Chiesa, con symbolum
si intendeva il credo, il segno della fede attorno al quale si professavano i
membri della comunità cristiana; la regola attorno alla quale ci si riconosceva tra
simili e che consentiva di distinguersi dagli infedeli: una sacra alleanza. Se
dunque il symbolon rimanda ad un'immagine o ad un oggetto spezzato, il symbolum
può riferirsi ad un credo formulato verbalmente. Per i latini, inoltre, il termine
indicava l'anello con il quale si contrassegnavano le epistole e, per estensione,
l'immagine stessa impressa sull'anello, oppure su un'insegna, un sigillo o un vessillo:
segni di ri-conoscimento aventi la proprietà intrinseca di provare, come un credo
visivo, un'appartenenza.
Per giustificare il culto delle icone, nel secondo concilio
di Nicea, tenuto nel 787, si spiegava che, onorandone l'immagine, si rendeva omaggio alla
persona stessa dell'imperatore. In assenza di quest'ultimo, la figura ne in-segna la
presenza, anche se il corpo si dà altrove. L'atto dell'onorare equivale all'azione
di colui che accosta le due parti spezzate di un symbolon. Se in un caso si
ricompone l'unità tramite le cose che tornano a coincidere, nell'altro lo stesso fine è
conseguito mediante le parole e i gesti.
L'esempio addotto dal concilio niceno introduceva alla
questione ben più rilevante, ma non dissimile sul piano logico, del culto dell'icona di
Cristo: chi la onora non rende un tributo alla sua immagine ma alla sua persona o, volendo
ricorrere al linguaggio del tempo, al suo prototipo. Perchè la preghiera potesse
avere efficacia occorreva garantire la rigorosa somiglianza fra Cristo e la sua icona.
Secondo la tradizione, fu san Luca, patrono dei pittori, a ritrarre Gesù e sua Madre dal
vero. Gli artisti, prima di iniziare un'opera sacra, dovevano purificarsi e digiunare e,
una volta al lavoro, era loro compito attenersi alle icone più antiche, come quelle
realizzate dall'evangelista. La somiglianza del modello originario doveva essere
rigorosamente tramandata per consentire, a chi pregava dinnanzi al Volto santo, di
ri-trovare il vero figlio di Dio. Una condizione vitale per il credente che, onorando
l'icona, rendeva omaggio anche al Padre, poichè Cristo "è l'immagine
dell'invisibile Dio". Il discorso cristiano sull'effigie non solo si atteneva
all'allegoria dell'imperatore, ma attribuiva all'atto dell'onorare la possibilità di
accedere al trascendente. Tale rottura di livello, di chi passa dal profano al sacro, non
è propria all'immagine in sè -che pure deve essere fedele- ma alla preghiera dinnanzi ad
essa. Fra i mosaici della basilica di San Marco si trova un Pantocratore,
realizzato nella seconda metà del XII secolo in un sottarco della cappella di san
Clemente. Un'iscrizione, evidentemente indirizzata ai prelati e al doge, cosè ammonisce:
"Infatti Dio è ciò che l'immagine mostra, ma non è essa Dio. / Vedi l'immagine, ma
con l'animo veneri ciò che in lei riconosci". È l'anima, sospinta dal cuore, e non
l'occhio che può percepire il mistero del divino. Volendo procedere lungo tale direzione,
che poi è quella ancora seguita dalla Chiesa greco-ortodossa, si potrebbe sostenere, con
scandalo estremo per gli iconologi, che senza un credo non esiste immagine simbolica.
Un'icona, come il dito che indica la Luna, è un semplice
mezzo per giungere al simboleggiato, che è il fine. Se poi si dimentica la natura
illusoria dell'immagine, identificandola con la persona o, in altre parole, si scambia la
realtà con il suo riflesso, si precipita nell'idolatria, l'errore di colui che, dimentico
della materialità dell'opera d'arte le conferisce una vita propria. Le patere veneziane,
applicate sopra o ai fianchi delle polifore, assolvevano alla stessa funzione apotropaica
delle maschere o dei fantocci appesi fra le colonne dei templi greci: proteggere, come un
amuleto, la dimora laddove si apre all'esterno. È attraverso una finestra o un'apertura
infatti che penetrano gli influssi maligni. La patera, con i suoi arcaici rilievi,
ristabilisce l'ideale continuità del tessuto murario e protegge dal diabolico che,
dis-unendo, si manifesta proprio nel vuoto.
Ma se all'immagine, divenuta idolo o simulacro, si
conferisce potere, si apre un vasto campo d'azione. Orientando la propria persona
-nelle apparenze o nel comportamento- verso l'icona di un'altra -e l'affermazione non è
inattuale- non solo si dichiara la propria appartenenza ad un determinato gruppo, ma si
crede di assumere in sè stessi le qualità del prototipo. Come dire: ognuno è come
l'imperatore, dimenticando che, in realtà, appare solamente, ma come se lo fosse. Status
symbol, appunto.
Se finora si è voluto insistere sulla fede come condizione
necessaria per l'esistenza di un simbolo, va pure ricordato che la storia semantica di
quest'ultimo termine è assai complessa e quello che più interessa in questa sede
riguarda i significati inerenti la produzione di opere d'arte. Le figure simboliche,
dovendo far ri-conoscere, presuppongono la creazione di specifici linguaggi. Stelle,
pianeti, divinità, eroi, persone, animali, alberi, fiori, frutti o pietre preziose sono
solo i principali raggruppamenti di cospicui vocabolari dove, ogni figura, può assumere
significati diversi. Astrologia, ermetismo, alchimia, massoneria, cabala, poesia,
filosofia, psicanalisi o emblematica possono ricorrere alla stessa rappresentazione, ma
con accezioni dissimili. Volendo poi rimanere nell'ambito dei soli testi sacri cristiani,
e seguendo la teoria patristica, una figura può essere interpretata in quattro sensi:
letterale, allegorico, anagogico e tropologico. Esegesi ed ermeneutica spingono dunque la
ricerca dello storico, ma anche dell'artista, nell'ambito della retorica e inquadrano il
simbolo come figura d'eloquenza.
L'iconologia, nella accezione più ristretta e accademica,
occupandosi del symbolon come unità spezzata in due parti, finisce con il cercare
per ogni figura una definizione esatta, una traduzione compiuta. L'analisi di soggetti
religiosi -condotta nell'ambito di una disciplina alla quale è preclusa l'esperienza del
trascendente, di per sè indefinibile- non può che portare ad una illusoria percezione
del Sacro, destinata ad arrestarsi al livello del pro-fanum, cioè di colui che sta
dinnanzi al santuario, fuori dal tempio. Come se, per dare spiegazione di una misteriosa
figura bastasse ricorrere ad un vocabolario dei simboli. Per quanto rigorosi e articolati,
tali repertori andrebbero consultati come oracoli dopo il cui responso occorre di nuovo
interrogarsi.
Allora, all'insegnante e allo storico dell'arte, iniziatori
o guide nel regno delle immagini, per arricchire le capacità percettive di un allievo
spetterà il compito di esporre almeno due regole basilari: la pluralità e l'unicità di
significato. Con la prima, si ricorderà che una figura, se isolata, può contenere
un'ampia gamma di rinvii ma che, a seconda del luogo, del discorso e delle immagini con le
quali entra in relazione, i suoi significati -ed è la seconda regola- andranno
progressivamente restringendosi e diversificandosi. Un animale come il leone può essere
associato a molteplici spiegazioni ma se, in un'opera d'arte cristiana, si trova ai piedi
di una persona con un libro, non si tratta dello stesso simbolo. Accompagnando Girolamo,
asceta e dottore della Chiesa, il leone rappresenta la riconoscenza verso il santo che gli
estrasse una spina dalla zampa. Associata all'evangelista Marco, la figura, spesso con le
ali, evoca più significati: uno dei quattro volti enigmatici del tetramorfo nella visione
di Ezechiele, la voce profetica di Giovanni Battista nel deserto, la risurrezione di
Cristo, la potenza e la fede della repubblica di Venezia.
Esistono altresì simboli indecifrabili, muti ad ogni
spiegazione. Non ci si riferisce a codici magici o segreti, nè a figure provenienti da
contesti culturali ignoti, come spesso accade nell'ambito dell'archeologia o a chi si
confronta con una civiltà diversa da quella di appartenenza, quanto invece alla
propagazione delle forme simboliche. Da non confondere con la migrazione di un simbolo,
processo secondo il quale la stessa figura può -transitando da un sapere ad un altro-
subire trasformazioni formali e di significato, tale disseminazione è strettamente
connessa con la decorazione artistica. La figura di un simbolo può essere sradicata dal
suo contesto, svuotata dei suoi significati e poi semplificata o variata graficamente
secondo determinati processi inventivi come è accaduto, ad esempio, alle piante del loto
o dell'acanto. Alois Riegl, descrivendo l'evoluzione delle forme ornamentali ne ha
individuato almeno quattro momenti fondamentali: lo stile geometrico, che introduce la
simmetria e il ritmo, e le cui origini sono legate alle tecniche dell'intreccio e della
tessitura; lo stile araldico, caratterizzato da coppie di soggetti simmetrici e
affrontati; lo stile a motivi vegetali, che porta allo sviluppo del tralcio ornamentale e
l'arabesco, o ornato a tralci nell'arte saracena. L'artista o l'artigiano, privo di un
credo o di un'iniziazione, può essere mosso -come ha ipotizzato Ernst Gombrich- da un
desiderio esibizionistico, da uno spirito di competizione, spesso fomentato dal
committente, che lo porta ad inseguire una sorta di virtuosismo ornamentale. Anzichè
tramandare le costanti formali, che in una figura simbolica assicurano la fedeltà al
prototipo, l'artista -mosso da un particolare desiderio di libertà- si cimenta con il
tema della variazione. L'arte passa così da una ricerca sugli aspetti immutabili ad
un'altra -tutta moderna e contemporanea- su quelli contingenti. Il simbolo si muta così
in segno individuale e poi in silente ornamento.
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